I DADI DA GIOCO

Estratto dal libro «Le Dimore Filosofali» di Fulcanelli

In qualche modo, vale a dire in maniera analoga, cosa che potrebbe lasciar credere che la scoperta della pietra sarebbe dovuta al caso, e che anche la conoscenza del magistero sarebbe tributaria di un fortunato colpo di dadi. Ma sappiamo in modo pertinente che la scienza, vero presente di dio, luce spirituale ottenuta per rivelazione, non può essere soggetta a tali rischi. Non che non si possa trovare fortuitamente, lì come altrove, l’abilità manuale che esige un’operazione ribelle; tuttavia, se l’alchimia si limitasse all’acquisizione di una tecnica speciale, di qualche artificio di laboratorio, si ridurrebbe a gran poca cosa e non eccederebbe il valore di una semplice formula. Ora, la scienza supera di gran lunga la fabbricazione sintetica dei metalli preziosi, e la pietra filosofale stessa è soltanto il primo scalino positivo che permette all’Adepto di elevarsi fino alle conoscenze più sublimi. Anche dimorando nel dominio fisico, che è quello delle manifestazioni materiali e delle certezze fondamentali, possiamo garantire che l’Opera non è affatto sottoposta all’imprevisto. Ha le sue leggi, i suoi principi, le sue condizioni, i suoi agenti segreti e troppo deriva da azioni combinate e da influenze diverse per poter obbedire all’empirismo. Occorre scoprirlo, comprendere il processo, conoscere perfettamente le sue cause ed i suoi incidenti prima di passare alla sua esecuzione. E chiunque non lo possa vedere “in spirito” perde il suo tempo ed il suo olio, volendolo trovare con la pratica. “Il saggio ha gli occhi sulla testa”, dice l’Ecclesiaste (cap. 11,14), “e l’insensato marcia nelle tenebre." Il dado da gioco ha dunque un altro significato esoterico. La sua figura, che è quella del cubo (dal greco: da gioco, cubo), designa la pietra cubica o tagliata, la nostra pietra filosofale e la pietra angolare della chiesa. Ma, per essere regolarmente innalzata, questa pietra richiede tre ripetizioni successive di una stessa serie di sette operazioni, che porta il totale a ventuno. Questo numero corrisponde esattamente alla somma dei punti segnati sulle sei facce del dado, poiché aggiungendo i primi sei numeri si ottiene 21. E le tre serie di sette si troveranno ancora totalizzando gli stessi numeri di punti a boustrophedon.
1 2 3
6 5 4
Poste all’intersezione dei lati di un esagono iscritto, queste cifre tradurranno il movimento circolare proprio dell’interpretazione di un’altra figura, emblematica della Grande-Opera, quella del serpente Ouroboros, aut serpens qui caudam devoravit. In ogni caso, questa particolarità aritmetica, in accordo perfetto con il lavoro, consacra l’attribuzione del cubo o del dado all’espressione simbolica della nostra quintessenza minerale. È la tavola isiaca realizzata dal trono cubico della grande dea. Basta dunque, analogamente, gettare tre volte il dado sulla tavola, - e questo equivale, nella pratica, a ridissolvere tre volte la pietra, - per ottenerla con tutte le sue qualità. Sono queste tre fasi vegetative che l’artista ha rappresentato qui con tre piante. Alla fine, le reiterazioni indispensabili alla perfezione del lavoro ermetico forniscono la ragione del libro geroglifico composto da Abramo il Giudeo, ci dice Flamel, di tre volte sette fogli. Nello stesso modo, uno splendido manoscritto illuminato, eseguito all’inizio del XVIII secolo, contiene ventuno figure dipinte ciascuna adattata alle ventuno operazioni dell’Opera.

Estratto dal libro «Le Dimore Filosofali» di Fulcanelli









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